
Di Barbara Kornfeld
A quattro anni era indeciso se intraprendere la professione di neurochirurgo, emulando il suo padrino, oppure fare il pirata – come i protagonisti dei racconti dei quali gli narrava tenendolo seduto sulle ginocchia – penso, osservando la sua storia, che abbia trovato la sintesi perfetta per fare entrambi, al servizio del bene dei quindicimila pazienti del Policlinico Santa Maria Alle Scotte di Siena, solo per citare il luogo dove ha operato per più tempo. Ma la sua carriera è lunga e interseca il Besta di Milano, sua città natale, Cuneo, Novara, Torino. In ognuno di questi luoghi si svolge parte della sua crescita personale e professionale, soprattutto al suo passaggio quei luoghi non sono rimasti uguali: a lui si devono infatti la nascita dei relativi reparti di neurochirurgia, la nascita e consolidamento della mentalità di team – nell’ambito della quale dall’OSS al primario – ogni membro dell’equipe si è sentito partecipe e responsabile del benessere del paziente, in cui ciascuno ha rispettato i ruoli e le competenze degli altri, senza discriminare coloro fino ad allora ritenuti di grado culturale inferiore, tant’è che lo stesso dott. Oliveri afferma di aver sempre fatto notare ai suoi specializzandi che il tempo che infermieri ed OSS trascorrono in reparto con i pazienti – e il relativo monitoraggio – sono preziosissimi per i medici. Il dottor Giuseppe è – a giusta ragione –tra i luminari della neurochirurgia mondiale: suo il merito di aver portato Lorenzo Genitori a Siena (ora a Firenze). Lo scorso anno per raggiunti limiti d’età è in quiescenza ma non ha smesso di lavorare: è divenuto vicesindaco di Cinigliano, si occupa di associazionismo e continua a curare pazienti neurochirurgici a Grosseto.
Il libro che ha scritto “Le mani e la Mente – Il fare e il sentire di un chirurgo” con il pretesto dell’autobiografia – perché racconta parte dei vissuti dell’autore – in realtà tra le righe narra la storia della neurochirurgia italiana dalla sua nascita nel 1948, ai giorni nostri.
A un anno dal suo pensionamento dal ruolo di primario di neurochirurgia, si è tenuto un convegno di presentazione del libro al Policlinico Le Scotte; la sua coautrice – la giornalista senese Giulia Maestrini – ha illustrato il suo lavoro di limatura dei pensieri del protagonista per evitare di incappare in denunce e problemi legali. Il libro del dottor Oliveri merita di essere letto perché è totalmente diverso da qualsiasi testo in circolazione: non posso scendere nel dettaglio dei contenuti di ogni capitolo, lederei i diritti autoriali, ma quello che è certo che anzitutto è scritto in maniera comprensibile anche ai non “addetti ai lavori”; poi svela il backstage di un intervento di neurochirurgia (come si fa in pratica, quindi chiunque abbia un tumore al cervello o l’avesse avuto potrebbe essere interessato); traccia una descrizione seria di ciò che avveniva – e forse avviene – in molti ospedali del nord Italia, quando rifiutano pazienti in condizioni cliniche rischiose, fingendo di non avere posti letto (gente che nei tempi di trasporto da un ospedale all’altro perde le risorse fisiche utili a sostenere poi una chirurgia che possa salvargli la vita, i minuti in questi casi contano).
I media nazionali raramente parlano di queste vicende: lo scrivo pochi giorni dopo la puntata di Far West del 20 giugno 2025, su RAI 3, quando un servizio televisivo ha denunciato disservizi all’Ospedale Ruggi di Salerno. Le dichiarazioni degli ex medici sono valide perché effettuate da gente a volto scoperto che ha dichiarato il proprio nome e cognome: ciò che lascia il tempo che trova, ma manipola le masse, è la denuncia violentissima fatta da due pseudo-testimoni a volto coperto e voce contraffatta, che hanno mostrato anche presunti dati e grafici realizzati con l’intelligenza artificiale. Mi sono chiesta se quelle due testimonianze fossero veritiere e con quale criterio la televisione di stato abbia incluso questo genere di contributi che – a pochi mesi dalle elezioni regionali – si prestano a un attacco violento alla credibilità politica governativa.
Oliveri, viceversa fa autocritica su ospedali dei quali ha fatto parte, citando vicende alle quali non si è prestato. Il suo libro andrebbe fatto leggere agli studenti della materia. Lo consiglierei anche ai pazienti, alle loro famiglie e amici, a chiunque voglia capire meglio il sistema sanitario nazionale. Senza dimenticare i neurologi, perché prima di leggerlo mi ero chiesta quale fosse esattamente il loro ruolo: me l’ha chiarito il rammarico di Giuseppe Oliveri quando scrive che hanno rinunciato a diventare per il cervello, quello che i cardiologi sono per il cuore.
Conosco personalmente il dottor Oliveri: ho affidato a lui il mio cranio nel 2021, quando mi accorsi di portarmi a spasso da quattordici anni tre tumori al cervello, uno dei quali grosso quanto un’arancia, che mi avrebbe “finita” in quattro mesi. La caratteristica principale degli autori-registi è l’entusiasmo iniziale (facciamo tutto e subito, veloce), poi l’autoregolamentazione a favore di osservazione e ponderazione.
In questa sede non racconterò molto della mia vicenda, se non per comparazione con i contenuti del suo libro. Il dott. Oliveri è un medico che tratta il paziente con estrema empatia, ha totale controllo di tutto il reparto in ogni momento delle 24 ore – non c’è dettaglio che gli sfugga – tant’è che sapendo di avere un problema nei centri della memoria, prendevo appunti mentre ero sua paziente degente. Arrivava in direzione sanitaria molto prima delle sette del mattino per ricevere le telefonate dei potenziali pazienti, poi passava in reparto a far visita ai degenti: si sottoponeva “al fuoco incrociato” delle domande delle vecchiette che volevano sapere tutto della sua vita privata (eventuale moglie, fidanzata). Nel frattempo, prendevo appunti, considerato che per educazione e deontologia non mi azzardavo, ma Oliveri si girava puntualmente e ridendo diceva “e scrive”. Dopo andava in sala operatoria, talvolta per undici, quindici ore. Un chirurgo in sala operatoria deve annullare ogni bisogno fisico: fame, sete, sentimenti ed emozioni: è per la riuscita della chirurgia, altrimenti gli tremerebbe la mano. C’è però un prezzo da pagare e suppongo sia alto. Anni fa una psicoterapeuta dell’hinterland napoletano mi chiese di scrivere il suo diario terapeutico per “superare il trauma di una chirurgia”, poi ne voleva fare un libro “scritto a quattro mani”, poi volle tenerlo solo per sé “essendo la sua storia”. Futile dire che non mi corrispose un compenso commisurato al lavoro svolto. Lasciai perdere per via delle incongruenze: tra le tante, il presunto cinismo dei chirurghi; non mi ha mai convinta del tutto la tesi del “medico macellaio”; salvare vite, sia che si tratti di aprire un cranio, che di aprire una qualsiasi altra parte del corpo, implica sicuramente dover fare un allenamento a essere insensibili a determinati scenari e visioni, ma questo non significa che questi esseri umani che curano altri esseri umani non siano persone sensibili al dolore di chi soffre o, peggio che debbano sviluppare necessariamente perversioni.
Concordo con il dott. Oliveri quando scrive che una delle attività che gli riesce meglio è la gestione dei parenti dei pazienti: l’ho visto all’opera ed è stato perfetto. Nel mio caso, l’impegno era più quello di gestire me: sono arrivata da lui munita di laptop, telecamera, blocco appunti. Ha capito ci fosse molto da scoprire dietro il mio ottimismo: il suo staff l’ha capito un mese e mezzo dopo, quando ho raccontato la mia storia. Perché ho scelto lui? In realtà perché ha saputo tenermi testa a telefono: da ignorante quale ero in materia di medici dei “VIP” (ho saputo poi che curava Zanardi), reduce da un paio di visite che avevo ritenuto “deludenti”, gli dissi “dottore se mi detta il suo IBAN e l’indirizzo e-mail, le mando una scansione della Risonanza Magnetica così mi dà un parere sull’ipotesi di aprire il mio cranio”. Il suo numero me l’aveva dato Lorenzo Genitori, qualche giorno prima a Firenze, quando – a dispetto di quanto aveva preannunciato la segretaria – invece di dieci minuti, me ne aveva dedicati quaranta, chiacchierando e scherzando – oltre a dirmi che avevo perso quasi interamente il campo visivo a destra del capo, già da un anno. Bene Oliveri, alla mia proposta, rispose: “ma come? Devo aprirle il cranio e non vuole conoscermi? No, devo guardarla negli occhi. Soldi non ne voglio. Con qualunque mezzo, venga qui”. M’inchiodò. Cancellai tutte le altre visite: un medico che non è attaccato al denaro è fatto sempre più raro, soprattutto in base alla mia esperienza di documentarista e paziente (il mio primo tumore è stato un fibroadenoma alla mammella a diciassette anni, quando fui il case-study dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano-Lambrate, per l’età record).
Ma l’andamento dei reparti presieduti da Giuseppe Oliveri era strutturato in base alle esigenze dei singoli malati, nel rispetto delle diversità: di aneddoti ne potrei raccontare dozzine e nel suo libro ce ne sono altrettanti.
Quello che però va detto è che l’indole piratesca del medico si è sempre espressa a favore della vita: dicevo prima del trucco di alcuni ospedali del Nord Italia di evitare “gatte da pelare” fingendo di non avere posti letto per non accettare pazienti ad alto rischio di morte: è così che si è ritrovato ad operare con un trapano prelevato dal settore carpenteria di un ospedale la cui neurochirurgia era in allestimento, un giovane che avrebbe perso la vita di lì a poco con un aneurisma cerebrale.
Della vita privata del dottore non scrivo nulla, è riservato ma ne accenna nel libro: chi vuole approfondire deve comprarlo, posso assicurare che dopo aver iniziato a leggere non smetterà fino all’ultima pagina.
Provare per credere!